Women changing India. La rivoluzione silenziosa delle donne indiane

La Dj Safia Ally (photo by Olivia Arthur)

Qualcuno ha scritto: « Le donne dell’India non ti guardano. Camminano. In capo la brocca, in mano il cesto, sul fianco il bimbo piccolo, dietro i grandicelli, nel ventre il prossimo. Non occhieggiano, non civettano, non smorfiano». Paese impermeabile al cambiamento, l’India ne sta invece vivendo uno. Promosso proprio dalle sue donne. Lo Spazio Forma, in collaborazione con BNP Paribas e Magnum Photos, presenta una bellissima mostra intitolata appunto “Women changing India”. Storie piccole, quasi invisibili, che trasmettono però un pizzico, la sensazione che qualcosa si smuove. Sei fotografi e 130 scatti. E Milano ha l’onore di ospitare la prima europea di questa esposizione.

Operatrici Sewa girano un documentario (photo by Martin Franck)

L’accesso all’educazione ha aperto la strada a donne artiste, musiciste o dj, come Safia, speaker di radio Mirichi. Oppure (foto di Raghu Rai) poter arrivare a posti di prestigio come dirigenti d’azienda o scrittrici affermate. Gli scatti di Patrick Zachmann immortalano le panchayats, assemblee locali in cui le donne hanno un ruolo di prestigio. C’è chi ha creato una rete di microcredito per le lavoratrici, chi una cooperativa di tassiste donne che trasportano solo donne (nel reportage di Alex Webb). E c’è Bollywood, tempio dei controsensi indiani, in cui le donne si stanno imponendo anche come registe e produttrici (foto di Alessandra Sanguinetti). La chiamano “rivoluzione tranquilla”. Perché le donne indiane procedono a piccoli passi, senza urlare. Un fiume placido che lentamente sta erodendo millenni di status quo.

Una tassista a Mumbai (photo by Alex Webb)

WOMEN CHANGING INDIA – fotografie di Olivia Arthur, Martine Franck, Raghu Rai, Alessandra Sanguinetti, Alex Webb e Patrick Zachmann

Fino al 19 giugno Mar-dom: 11-21 / Giov e ven: 11-23

Spazio Forma, piazza Tito Lucrezio Caro 1, ingresso 7,50 euro, ridotto 4 euro

Informazioni su Pietro Pruneddu

Nato in Sardegna, l‘isola che De Andrè consigliava “al buon Dio di darci come Paradiso”. Emigrante perenne, dopo aver letto un articolo di Mimmo Càndito espongo a mia madre la volontà di diventare un inviato di guerra. Ne ottengo in risposta urla e forse una ciabatta. L’idea però resiste. Per questo sono al Master in Giornalismo Walter Tobagi. Tra l'altro mi innamoro troppo spesso. Dell’alchimia tra la puntina del mio giradischi e un vinile dei Velvet Underground, del rumore del mare incazzato, dei reportage di guerra, della volgarità misogina di Bret Easton Ellis e Bukowski, delle fotografie di facce distrutte dalla vita, dei film in bianco e nero, di Baresi che alza il braccio per chiamare il fuorigioco, degli sguardi in metropolitana, di Pantani che scatta a ripetizione sul Ventoux, delle risate che riempiono i silenzi.
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